Prefazione al catalogo a
cura di Claudio Strinati
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La storia
di Ernesto Michahelles e del fratello Ruggero
Alfredo, noti rispettivamente con gli pseudonimi
di Thayhat e Ram, non potrebbe
essere più tipica e nello stesso tempo più strana.
Figli di uno svizzero tedesco e una anglo americana, nati
a Firenze alla fine dell’ Ottocento, nella
loro vita sembrano incarnare a perfezione quell’ impalpabile,
e pure chiaramente percepibile, ideale dell’ anglosassone
a Firenze, misto di passione assoluta per l’ arte e
di singolare snobismo che tende a privilegiare, sempre e comunque,
la dimensione dell’ eletto e eterno “dilettante”
pago, apparentemente, di sbalordire e farsi ammirare, disinteressato
al successo, ma poi, invece, attentissimo ai riscontri del
pubblico e dei colleghi e spesso sull’ orlo di una sottile
nevrosi che non permette mai di scegliere, in definitiva,
tra la popolarità e l’ aristocratico distacco.
Thayhat vive, nel clima prodigioso dei primi
anni del Novecento, tutta la parabola del genio compreso,
forse fin troppo, e poi della delusione cocente e definitiva.
E’, naturalmente, uomo coltissimo e dotatissimo. Sembra
dominare, con agio e eleganza, tutto l’ universo della
creatività. Peraltro nulla ha da spartire
con il dannunzianesimo dilagante. E’ moderno
ed è, fin da giovanissimo, futurista e progressista
d’ istinto, senza nemmeno accorgersene chiaramente.
Solo molti anni dopo Marinetti lo incontrerà e riconoscerà
in lui, quando il Futurismo è ormai quasi un’
Accademia consolidata, il vero futurista. Il dinamismo, la
modernità sono la sua stessa essenza. Passerà,
però, alla storia soprattutto per avere inventato
la Tuta, questo capo d’ abbigliamento che sarà
subito popolare e che, nato per risparmiare, piacerà
tanto alle nobildonne. Tahyhat sarà così un
antesignano dell’ Industrial Design,
inventerà nuovi materiali per forgiare oggetti pregevoli,
sarà pienamente nel suo tempo, disinvolto e sportivo,
ma non sarà imitatore di nessuno.
Senonchè la sua carriera
durerà poco e già a metà degli anni trenta
si sente isolato e dimenticato. Dopo avere
dato un impulso incredibile di vivacità e creatività,
viene di colpo ignorato dalla critica che conta. Non si riprenderà
più ma continuerà a esercitare la sua acuta
intelligenza indirizzata ora verso l’ astronomia.
Il fratello, Ram,
è invece un pittore nel senso più tradizionale
del termine, una sorta di alter ego, almeno per un certo periodo,
di Primo Conti, un finissimo e arguto tessitore
di trame figurative che ne dimostrano l’ incantato scetticismo.
Un altro uomo singolarmente chiuso in sé, cui la sorte
ha dato il suo contributo determinante, facendo sì
che tante sue cose scomparissero. Resta di lui l’ immagine
di un dandy fuori tempo, sempre un po’ inattuale e di
stile felicissimo.
Pare che il padre sia stato
un severo genitore e, forse, qualcosa di quella educazione
restò impressa nei due fratelli, assillati per tutta
la vita dal dubbio atroce, anche se non dichiarato, della
possibile inutilità dell’ arte. Tutta l’
attività dell’ eccellente Thayhat sembra generare
interrogativi su questi argomenti: l’ arte,
insomma, è una cosa seria o è una forma di sovrano
passatempo? E, chi è dotato di talento cosa
deve fare? Il pittore o lo scultore nel senso tradizionale
del termine, o non, piuttosto, il creatore di moda, l’
inventore di nuove soluzioni del vivere e del divagarsi? Deve
riuscire a dimostrare che non tanto l’ arte quanto l’
artista serve a questo mondo? Non sentì Thayhat il
dovere dell’ impegno di essere artista, ma avvertì
molto la serietà del divertimento. E questo vale forse
per entrambi i fratelli, mai ingabbiati in rigide premesse
teoriche. Anzi il candore e l’ ingenuità
di Thayhat risultano abbastanza evidenti quando affronta da
vicino i grandi problemi dell’ arte, come nel caso dello
scambio di lettere con Ezra Pound che gli
mosse obiezioni, di tipo filosofico, sull’ essenza della
Scultura. Non ci fu alcuna vera risposta da parte di Thayhat
alle osservazioni di Pound che negava l’ applicazione
di categorie critiche come il “moto” o il “dinamismo”
all’ arte della scultura, che è ferma per definizione.
Si divertiva, Pound, a sollevare
utili paradossi sul funzionamento delle arti, per farle capire
e vedere meglio. Non era questo, però, il terreno su
cui un personaggio come Tahyaht si misurò volentieri.
Il suo era, e sarebbe rimasto, un percorso tutto attraversato
dall’ istinto anche se costruito con sapienza estrema.
Così i due fratelli
Michahelles sono personaggi che riflettono un piccolo
ma fervidissimo universo culturale, animato dalla
costante ansia di essere moderni e perennemente sospeso sul
filo della possibile delusione.
Dopo una lunga dimenticanza
i tempi sembrano ormai maturi per riappropriarci di persone
come loro.
Claudio Strinati
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